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L’amministratore rimborsa la transazione non autorizzata

Al rapporto tra i condòmini e l’amministratore sono applicabili le regole del mandato con rappresentanza (lo dicono anche le Sezioni unite della Cassazione con la sentenza 9148/2008).

Più in particolare l’incarico conferito all’amministrazione è assimilabile a un mandato a contenuto generale, abbracciando tutti gli affari attinenti alla gestione condominiale, fatta esclusione per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione.

Tra gli atti di straordinaria amministrazione rientra senza dubbio la transazione, cioè quel contratto finalizzato a risolvere una controversia, presente o anche solo potenziale, mediante reciproche concessioni dei contraenti e che comporta quindi la disposizione dei diritti delle parti. È quindi necessaria una preventiva e specifica autorizzazione da parte dell’assemblea condominiale.

Nell’ipotesi in cui l’assemblea non abbia definito con esattezza tutti i termini dell’accordo, limitandosi invece a prevedere le regole da seguire in sede di trattative, l’amministratore è tenuto ad attenersi scrupolosamente a tali criteri non potendo, per esempio, formulare autonomamente una proposta transattiva se l’assemblea abbia invece previsto l’obbligo di preventiva consultazione di una commissione di condòmini all’uopo nominata.

tale soluzione è giunto il Tribunale di Milano nella recente sentenza 5021/2017,nell’ambito della quale è stato evidenziato anche come il non puntuale rispetto della procedura dettata in sede assembleare configuri inadempimento dell’amministratore all’obbligo di eseguire le delibere condominiali (articolo 1130 del Codice civile).

La transazione eventualmente formalizzata in violazione dei confini dettati dall’assemblea è un atto esorbitante i limiti del mandato con la conseguenza che, in mancanza di successiva ratifica dell’accordo da parte del condominio, i relativi obblighi rimangono in capo all’amministratore stesso, in base all’articolo 1711 del Codice civile. Se però la transazione sia già stata eseguita e il relativo obbligo assunto dall’amministratore risulti ormai estinto con risorse del condominio, l’amministratore risulterà soggetto all’azione risarcitoria da parte dei singoli condòmini interessati.

Nella quantificazione del relativo danno il giudice meneghino ha ritenuto superflua ogni valutazione in merito all’opportunità o meno a transigere la vertenza alle condizioni individuate dall’amministratore, ritenendo invece il danno immediatamente identificabile nell’intera spesa affrontata dal condominio. La domanda svolta da un solo condomino può tuttavia essere accolta nei limiti dell’esborso economico da quest’ultimo affrontato, con conseguente condanna dell’Amministratore a risarcire la sola quota millesimale di competenza del condomino andato in giudizio.
© RIPRODUZIONE RISERVATA  di Raffaello Stendardi

Le dimissioni volontarie dell’amministratore di condominio

A volte, per problemi organizzativi o personali, l’amministratore rassegna le proprie dimissioni al Condominio, non potendo più svolgere l’incarico
Possono essere rilasciate verbalmente, nel corso di un’assemblea, o per iscritto.
La lettera di dimissioni dell’amministratore di condominio è una comunicazione, inoltrata a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento, con la quale l’amministrazione scriverà al condominio, quindi a sé stesso –per cautela a tutti i condomini- quale amministratore in carica, esprimendo la propria decisione di dimettersi dall’incarico e indicando le motivazioni, che non dovranno essere generiche ma specifiche, che lo spingono a tale decisione. Quindi, una volta ricevuta la comunicazione, dovrà essere indetta una assemblea di condominio, affinché i condomini possano discutere sul merito della vicenda e nominare un nuovo amministratore di condominio
Con le dimissioni,  il mandatario dello stabile intende cessare il rapporto prima della sua scadenza. L’assemblea dei condomini non è chiamata a decidere in merito ma solo a recepirne il contenuto per poi procedere alla deliberazione di approvazione di un nuovo mandatario.
La decisione della riunione dell’edificio attiene pertanto esclusivamente alla nomina di un nuovo amministratore, deliberazione da assumersi sia in prima convocazione, sia in seconda, con le maggioranze prescritte dall’art. 1136 secondo comma, dopo aver dato atto e verbalizzato le dimissioni del precedente amministratore.
Qualsiasi sia la causa che spinge l’amministratore a dare le proprie dimissioni, le stesse non possono essere immediate, salvo il risarcimento di eventuali danni che le sue dimissioni immediate potessero causare. Esiste l’istituto della prorogatio imperii sulla cui base finchè non viene incaricato un nuovo mandatario, il precedente continua nelle sue attribuzioni.
Per prorogatio si intende la prosecuzione nella carica di amministratore in via provvisoria (o ad interim) proprio per sottolineare una situazione provvisoria che andrà a risolversi in futuro.
La Cassazione rileva che l’istituto della prorogatio imperii è applicabile in ogni caso in cui il condominio rimanga privato dell’opera dell’amministratore, e pertanto non solo nei casi di scadenza del termine di cui all’articolo 1129, secondo comma, del Codice civile, o di dimissioni, ma anche nei casi di revoca o annullamento per illegittimità della relativa delibera di nomina (Cassazione, sentenze 1405/2007, 18660/2012 e 14930/2013). Il Supremo Collegio afferma simultaneamente che l’amministratore uscente conserva provvisoriamente i suoi poteri e può continuarli ad esercitare fino a che non venga sostituito da altro amministratore. (Cassazione, sentenza 1445/1993)
Com’è noto, il rapporto di lavoro che lega l’amministratore al condominio è un contratto di mandato, come ha più volte determinato la giurisprudenza, e anche recentemente la Cassazione a Sezioni Unite n. 9148/08.
E’ chiaro e importante ricordare che, nell’adempimento del proprio incarico, l’amministratore di condominio deve rispettare tutte quelle norme che regolano il contratto di mandato e tra queste l’articolo 1722 c.c., che indica, tra le cause di estinzione del mandato, la rinunzia da parte del mandatario.
Inoltre occorre porre a mente che con l’art. 1727 c.c., l’amministratore non potrà rinunciare senza una giusta causa; spetta alla giurisprudenza definire nello specifico se la causa di dimissioni dell’amministratore condominio sia o meno considerabile giusta: nel caso non sia presente una giusta causa di rinuncia, dovrà risarcire eventuali danni causati al mandante.
La Suprema Corte così si esprime: “l’amministratore di un condominio, anche dopo la cessazione della carica per scadenza del termine di cui all’articolo 1129 c.c. o per dimissioni, conserva ad interim i suoi poteri e può continuarli ad esercitare fino a che non sia stato sostituito da altro amministratore. Ma tale principio – nell’elaborazione giurisprudenziale, in che trova propriamente la sua genesi (in difetto di esplicita enunciazione normativa) – si giustifica in ragione di una presunzione di conformità, di una siffatta perpetuatio di poteri dell’ex amministratore, all’interesse ed alla volontà dei condomini” (Cass. n. 1445/1993). Affermazione ribadita nel tempo: “in tema di condominio di edifici, l’istituto della ‘prorogatio imperii’ – che trova fondamento nella presunzione di conformità alla volontà dei condomini e nell’interesse del condominio alla continuità dell’amministratore – è applicabile in ogni caso in cui il condominio rimanga privato dell’opera dell’amministratore, e pertanto non solo nei casi di scadenza del termine di cui all’art. 1129, secondo comma, c.c., o di dimissioni, ma anche nei casi di revoca o annullamento per illegittimità della relativa delibera di nomina”. (Cass. n. 1405/2007; Cass. n. 18660/2012; n. 14930/2013).
Anche in presenza di giusta causa, comunque, in adempimento del principio di buona fede nell’adempimento dei contratti, l’amministratore è comunque tenuto a gestire l’ordinaria amministrazione del condominio, finché l’assemblea di condominio non abbia nominato un nuovo amministratore. Se l’assemblea di condominio non provvedesse alla nomina, l’amministratore dimissionario può adire le vie giudiziali per chiedere la nomina di un amministratore giudiziario ex art. 1129 primo comma c.c.
A norma dell’art. 1129 ottavo comma c.c. alla cessazione dell’incarico, è tenuto a consegnare tutto ciò che è in suo possesso afferente al condominio e ai singoli condomini e ad eseguire le attività urgenti al fine di evitare pregiudizi agli interessi comuni senza diritto ad ulteriori compensi.
In questa sede viene redatto il cd. verbale di consegne che viene sottoscritto dall’amministratore cessato e da quello neo-nominato. Questo verbale è un negozio di accertamento di quanto viene dato al nuovo amministratore con riferimento al condominio
l’amministratore revocato deve far pervenire tempestivamente e spontaneamente al nuovo amministratore tutta la documentazione in suo possesso che detiene unicamente nella sua veste di mandatario e che è di esclusiva pertinenza del mandante” (Trib. Milano Sez. V, 24-01-2008)
l’inottemperanza all’obbligo di consegna legittima il nuovo amministratore ad agire in giudizio, nella veste di legale rappresentante del condominio, al fine di ottenere la condanna del vecchio amministratore alla esecuzione specifica dell’obbligo” (Trib. Milano Sez. VIII, 30-04-2005) nonché comporta la legittimazione in capo al condominio all’azione di risarcimento del danno (Trib. Milano Sez. XIII, 03-04-2008).
Ove il precedente mandatario non vi provvedesse, si può agire in sede giudiziale con l’azione cautelare per ottenere il provvedimento d’urgenza di consegna della documentazione afferente al condominio
“… a seguito dell’adozione della delibera di revoca l’amministratore è tenuto, tra l’altro, a restituire ogni cosa di pertinenza del condominio, senza che per l’inottemperanza a tale obbligo si debba fare ricorso al Tribunale a norma dell’ultimo comma dell’art. 1105 c.c., potendosi legittimamente richiedere l’adozione di un provvedimento di urgenza a norma dell’art. 700 c.p.c.” (Cass.: 11472/1991. Nello stesso senso: Trib. Civ. Ariano Irpino 24 aprile 2007; Trib. Roma, ord. 7 dicembre 1998; Pret. Milano 28 marzo 1990). Lo stesso vale per il caso del mandatario a dimissioni rese con nomina del nuovo amministratore
Il ricorso ex art. 700 c.p.c. può essere legittimamente esperito dall’amministratore condominiale “anche in assenza di una delibera assembleare di autorizzazione” (Cfr.: Trib. Salerno 3 ottobre 2006).
© RIPRODUZIONE RISERVATA di Anna Nicola

Auto rimossa dallo spazio comune, il condominio paga i danni

Rimuovere le autovetture in “sosta vietata” da uno spazio condominiale può risultare controproducente per il condominio e per l’amministratore che ha dato l’ordine. Come nel caso dell’ordinanza 25527 del 2017 della Cassazione (relatore Antonio Scarpa), che ha trattato un caso in cui una condòmina aveva citato in giudizio il condominio e l’amministratore per il risarcimento dei danni, quantificati in euro 3.777,60, oltre interessi, subiti dalla propria autovettura rimossa, in esecuzione di una deliberazione assembleare, da un’area condominiale ed abbandonata sulla via pubblica, dove era stata oggetto di danneggiamento ad opera di terzi.
La domanda, rigettata dal Tribunale, veniva parzialmente accolta dalla Corte d’Appello la quale affermava che l’amministratore non avrebbe comunque potuto procedere personalmente alla rimozione coattiva dell’autovettura. Tuttavia, pur dichiarando illegittima la condotta dell’amministratore, sosteneva che non sussistevano prove del danno patrimoniale subito dalla condòmina le quali potessero essere casualmente e direttamente riconducibili alla condotta posta in essere dalla parte appellata.
Ricorrendo in Cassazione, la stessa condòmina denunciava che la Corte d’Appello non aveva chiarito la motivazione per la quale non era stata valutata la esibita documentazione fiscale della carrozzeria e la testimonianza dello stesso carrozziere sui danni subiti dall’autovettura e sui costi di riparazione.
La ricorrente, inoltre, criticava la mancata motivazione sull’esistenza del nesso causale tra la condotta illecita dell’amministratore, che aveva rimosso ed abbandonato l’auto sulla strada pubblica, ed il danneggiamento subito dalla stessa. Danneggiamento che non si sarebbe verificato se il veicolo fosse rimasto all’interno dell’area privata condominiale. I controricorrenti evidenziano che l’autoveicolo era stato immatricolato nel 1994, ed aveva un valore di mercato di euro 100,00 – valore dedotto dai listini di riviste specializzate dei settore automobilistico – , sicché la riparazione risultava comunque antieconomica. Per la Cassazione, la sentenza di secondo grado denotava un’anomalia motivazionale in forma di “motivazione apparente”, in quanto la Corte di merito aveva omesso del tutto l’indicazione degli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento, rendendo impossibile ogni controllo sull’esattezza del suo ragionamento e sul diniego della sussistenza di un nesso di causalità, materiale e giuridica, che leghi l’accertata condotta illecita dell’amministratore e i danni che si sono pretesi conseguenti.
La Corte ha, perciò, accolto il ricorso, cassando la sentenza impugnata e rinviandola ad un’altra sezione della Corte d’Appello, che deciderà tenendo conto dei rilievi svolti e regolerà anche le spese del giudizio di cassazione.
© RIPRODUZIONE RISERVATA  di Valeria Sibilio

Ascensore, incidente imprevedibile senza colpa

La condotta negligente della vittima non sempre esclude la responsabilità del custode. E La Cassazione (sentenza 25837 depositata ieri, relatore Marco Rossetti) interviene sulla complessa questione della responsabilità del condominio in caso di incidente per il dislivello tra ascensore e piano.

La responsabilità del custode, in base all’articolo 2051 del Codice civile, può essere esclusa, oltre che dalla “forza maggiore”, anche dal “caso fortuito”, il quale ben può essere rappresentato dalla condotta tenuta dalla vittima dell’incidente, causa che può costituire una concausa del danno o anche causa esclusiva dello stesso.

Tuttavia ciò non significa che, una volta accertata la condotta negligente della vittima, il diritto al risarcimento del danno debba essere automaticamente ridotto o negato.

Infatti la condotta negligente, distratta, imperita o imprudente della vittima non integra necessariamente il caso fortuito, atteso che, il custode, per superare la presunzione di colpa deve, in ogni caso, dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare i danni derivanti dalla cosa. Quindi, per escludere la responsabilità del custode è necessario l’accertamento sia della condotta negligente del danneggiato, ma anche dell’imprevedibilità di quella stessa condotta da parte del custode.

Questo, in sintesi, il principio di diritto espresso dalla Corte di Cassazione.

La vicenda giudiziaria trae origine dalla richiesta di risarcimento danni per responsabilità da cose in custodia, avanzata da un condomino inciampato nel dislivello formatosi tra il pavimento della cabina dell’ascensore e quello del piano di arresto. In primo grado la domanda veniva respinta e la Corte d’Appello di Milano confermava il rigetto poiché il dislivello «non poteva rappresentare una insidia», bensì una situazione «ricorrente e prevedibilissima» la vittima era tenuta a «verificare il piano di calpestio che va ad impegnare».

La Corte di Cassazione, invece, cassando con rinvio, premette che la «condotta imprevedibile della vittima non è necessariamente una condotta colposa, né è vero il contrario»,

Conseguentemente, il solo accertamento della condotta negligente della vittima «non basta di per sé ad escludere la responsabilità del custode», dovendosi al riguardo accertare «(a) che la vittima abbia tenuto una condotta negligente; (b) che quella condotta non fosse prevedibile». Nel caso di specie, per la Cassazione, «la Corte d’Appello ha reputato sussistente una ipotesi di caso fortuito prendendo in esame unicamente la condotta della vittima, qualificata come negligente, ma senza esaminare se quella condotta potesse ritenersi imprevedibile, eccezionale od anomala da parte del custode», così violando l’articolo 2051 del Codice civile. E nel nuovo esame la Corte d’appello dovrà applicare questo principio: «La condotta della vittima del danno causato da una cosa in custodia può costituire un “caso fortuito”, ed escludere integralmente la responsabilità del custode ai sensi dell’art. 2051 c.c., quando abbia due caratteristiche: sia stata colposa, e non fosse prevedibile da parte del custode».
© RIPRODUZIONE RISERVATA – di Paolo Accoti – Sole24ore

L’amministratore e la responsabilità per la mancata emissione di decreto ingiuntivo

L’ordinanza della Cassazione n. 24920 del 20 ottobre ha esaminato il caso di mancata emissione di decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 63 disp. att. codice civile da parte dell’amministratore di condominio. Il caso, conclusosi in primo grado, con sentenza del Tribunale di Terni con sentenza del 12 maggio 2015, vedeva ritenuto responsabile e condannato l’amministratore di condominio per violazione degli obblighi derivanti dal mandato per aver omesso di pagare il premio di assicurazione.
Il Tribunale imputava all’amministratore la mancanza di disponibilità finanziarie per aver omesso di procedere avverso i morosi con la procedura di cui all’art.63 disp. att. codice civile che conferisce il potere di “ottenere un decreto di ingiunzione immediatamente esecutivo”.
Avverso la sentenza del Tribunale l’amministratore proponeva appello e la Corte d’appello di Perugia, accogliendo l’impugnativa incidentale dell’amministratore, riteneva che il mancato pagamento della polizza assicurativa, per carenza di fondi, determinata da morosità dei condomini, non facesse sorgere l’obbligo, in capo all’amministratore, di anticipare con fondi propri il pagamento del premio. Né la previsione del potere previsto dall’art. 63 disp. att. era da ritenersi un obbligo essendo tale procedura uno degli strumenti di cui il condominio e per esso l’amministratore dispone per conseguire il pagamento delle quote condominiali. La Corte non riteneva che l’amministratore avesse violato l’obbligo previsto art. 1710 codice civile. di eseguire il mandato “con la diligenza del buon padre di famiglia. La sentenza della Corte di Appello approdava in Cassazione e decisa con ordinanza n. 24920 del 20 ottobre 17.
La Corte di Cassazione svolgeva una serie di analisi e considerazioni preliminari. Innanzi tutto definiva la funzione dell’amministratore nel suo rapporto con i partecipanti al condominio assimilandola alla rappresentanza volontaria non essendo il condominio ente giuridico con propri organi rappresentativi. Da ciò derivava la qualificazione del rapporto amministratore/condomini come semplice rapporto di mandato regolata dall’art. 1703 codice civile. e seguenti. In tale contesto interpretativo, essendosi accertato in sede di merito che l’amministratore aveva sollecitato più volte i morosi all’adempimento si riteneva adempiuto l’obbligo del mandatario alla esecuzione del mandato con la diligenza del buon padre di famiglia (art.1710 codice civile). La Corte ha ritenuto che “l’art. 63 disp. att. disp. att. codice civile, non prevede un obbligo, ma solo una facoltà di agire in via monitoria contro i condomini morosi (”può ottenere decreto di ingiunzione…”) e pertanto non merita censura la decisione impugnata laddove ha escluso la violazione dell’obbligo di diligenza da parte dell’ amministratore per essersi comunque attivato nella raccolta dei fondi, avendo comunque messo in mora gli inadempienti (e l’indagine circa l’osservanza o meno da parte del mandatario degli obblighi di diligenza del buon padre di famiglia che lo stesso è tenuto ad osservare ex artt. 1708 e 1710 codice civile. – anche in relazione agli atti preparatori, strumentali e successivi all’esecuzione del mandato – è affidata al giudice del merito, con riferimento al caso concreto ed alla stregua degli elementi forniti dalle parti, il cui risultato, fondato sulla valutazione dei fatti e delle prove, è insindacabile in sede di legittimità: v. tra le varie, Sez. 2, Sentenza n. 13513 del 16 settembre 2002 in motivazione).”
Questa decisione ha fatto ritenere ad alcuni commentatori che l’amministratore di condominio possa impunemente evitare di avvalersi dell’utilizzo dello strumento previsto dall’art. 63 disp. att. codice civile non essendovi obbligato espressamente. Sfuggono alcune considerazioni di fondo che val la pena di evidenziare.
Il caso deciso nasce molti anni prima della riforma del condominio, legge 220/12, e quindi la corte ha dovuto far riferimento alla normativa previgente. Non ha considerato, non poteva fare diversamente, che ora il comma 9 dell’art 1129 codice civile recita: “Salvo che sia stato espressamente dispensato dall’assemblea, l’amministratore è tenuto ad agire per la riscossione forzosa delle somme dovute dagli obbligati entro sei mesi dalla chiusura dell’esercizio nel quale il credito esigibile è compreso, anche ai sensi dell’articolo 63, primo comma, delle disposizioni per l’attuazione del presente codice.”
Con riferimento agli obblighi del mandatario (nel nostro caso l’amministratore del condominio), tralasciamo per ora le valutazioni sulla soggettività del condominio su cui occorrerà fare una diversa valutazione anche alla luce della riforma e di recenti sentenze di legittimità e merito, occorre fare alcune precisazioni.
Il mandante, cioè i condomini, hanno l’obbligo a norma dell’art. Art. 1719 codice civile., “di dotare il mandante (l’amministratore) dei mezzi necessari per l’esecuzione del mandato. Il mandante, salvo patto contrario, è tenuto a somministrare al mandatario i mezzi necessari per l’esecuzione del mandato e per l’adempimento delle obbligazioni che a tal fine il mandatario ha contratte in proprio nome.”
L’amministratore privo di fondi necessari per adempiere le sue funzioni deve chiedere ai condomini la integrazione di quanto necessario. Va ricordato che a norma dell’art 1130 codice civile. egli deve “riscuotere i contributi ed erogare le spese occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni dell’edificio e per l’esercizio dei servizi comuni;”
L’amministratore diligente, per non incorrere in responsabilità, deve provvedere alla messa in mora e immediatamente “agire per la riscossione forzosa delle somme dovute dagli obbligati” comunque entro il termine dei 6 mesi della chiusura dell’esercizio.
Ciò non significa che prima di tale termine non debba attivarsi né che in caso diverso sia comunque responsabile. Si possono verificare situazioni oggettive nelle quali l’emissione di decreto ingiuntivo non sia semplice o addirittura interdetta, si pensi ai casi di fallimento o di commissariamento o di beni assoggettai a confisca per reati di criminalità organizzata o mafia, commissariamento per usura.
In ogni caso quando sono necessari fondi per l’ erogazione dei servizi, soprattutto quelli essenziali, deve chiedere ai condomini di fornirgli le risorse necessarie con rate di acconto integrative in adempimento dell’obbligo previsto a loro carico nell’art. 1719 codice civile.: “di dotare il mandante (l’amministratore) dei mezzi necessari per l’esecuzione del mandato.”
In conclusione quindi l’amministratore alla luce delle considerazioni fatte e nonostante quanto deciso nell’ordinanza della Corte di Cassazione n. 24920 del 20 ottobre 2017 ha comunque l’obbligo di procedere in via monitoria avverso i condomini morosi entro sei mesi dalla chiusura del bilancio, attivandosi, pena la responsabilità personale a richiedere i fondi necessari ad adempiere al suo mandato.
© RIPRODUZIONE RISERVATA di Vincenzo Vecchio- sole24ore

I negozi non sfuggono alle spese

Molto spesso i proprietari dei negozi e di tutte le unità immobiliari con accesso diretto alla strada suppongono che le spese di ristrutturazione dell’androne e delle scale non li riguardino e quindi di essere esclusi dal loro riparto. E invece non è così (lo dicono praticamente tutte le sentenze della Cassazione): anche loro devono pagarle, così come quelle per il portiere, perché conta la destinazione potenziale dei beni all’uso comune e non il loro effettivo utilizzo da parte di ciascun condòmino.

Infatti nelle sentenze si afferma che, in mancanza di una diversa e specifica convenzione, si deve accertare se le spese si riferiscono a parti e a servizi comuni che costituiscono elementi necessari per l’esistenza del fabbricato e che, in tal caso, anche i titolari dei negozi devono contribuire (Cassazione, sentenza 9986/2017) .

Ai condòmini, tuttavia, è consentito stipulare un accordo (o inserire nel regolamento condominiale contrattuale una apposita clausola) per escludere dalla partecipazione a specifiche spese comuni i proprietari dei negozi o anche dei garages.

L’androne e le scale di un edificio sono comuni anche ai proprietari dei locali terranei con accesso diretto alla strada, (Cassazione sentenza 761/1979). Quindi anche i proprietari dei negozi devono partecipare (magari stabilendo una misura ridotta di contribuzione in considerazione della minore utilità che viene acquisita da essi) alle spese relative alla manutenzione e alla ricostruzione delle scale (Cassazione, sentenza 15444/2007) e dell’androne, perché servono per accedere alla portineria, al tetto o al lastrico solare .

Regola analoga viene applicata anche alle spese relative al servizio di portierato (Cassazione sentenza 12298/2003), perché, se il regolamento condominiale non contiene una diversa previsione, il servizio di portierato viene svolto nell’interesse comune di tutti i condomini, compresi i proprietari dei negozi e dei magazzini posti sulla pubblica via, anche se, nella misura della contribuzione dovuta da questi ultimi, si può tenere conto del loro eventuale minore interesse al godimento del servizio (Cassazione sentenza 2622/1968). Ma se il regolamento le indica tra quelle di carattere generale devono essere ripartite tra tutti i condomini ai sensi dell’articolo 1123 del Codice civile in proporzione al valore della proprietà di ciascuno e non è configurabile una deroga solo perché esiste una tabella, allegata al regolamento, per ripartire di spese particolari di pertinenza dei soli appartamenti (Cassazione sentenza 5081/1990).
© RIPRODUZIONE RISERVATA- di Ettore Ditta

Quando si vende la pertinenza il vincolo con il bene principale si scioglie

L’acquisto di un immobile in un’asta giudiziaria può risultare conveniente, specie in momenti contingenti di crisi economica. Tuttavia, a volte, questo può generare problematiche a cui si perviene ad una soluzione solo per via giudiziaria.
Il caso esaminato dalla Cassazione, con ordinanza 24432 del 2017 (relatore Antonio Scarpa), tratta di un condòmino che domanda l’inefficacia del contratto di compravendita , intercorso tra due compratori e un venditore, avente per oggetto una mansarda sovrastante l’appartamento acquistato dall’attore in una procedura di vendita giudiziaria, deducendo il legame di pertinenzialità tra i due beni.
Il Tribunale affermava che gli atti pubblici prodotti comprovassero che la mansarda fosse sempre appartenuta a soggetti diversi dai debitori esecutati nel procedimento culminato con la vendita giudiziale, cioè dapprima che fosse stata acquistata dal costruttore che, in seguito, aveva disposto, per testamento, in favore di due ulteriori signori. Il Tribunale negava, perciò, che emergesse dagli atti di proprietà la destinazione della mansarda a servizio dell’appartamento poi acquistato in sede giudiziale dal ricorrente, così come escludeva il rilievo del fatto che sussistessero una scala interna di collegamento tra i due immobili, nonché condutture comuni. Lo stesso Tribunale evidenziava come il pignoramento della procedura esecutiva immobiliare avesse riguardato il solo appartamento aggiudicato al ricorrente, essendosi limitato il perito incaricato della stima del bene ad evidenziare la presenza della scala di collegamento. Per il ricorrente, il Tribunale avrebbe negato il vincolo pertinenziale, senza accertare la preesistenza e persistenza della scala interna di collegamento e dell’impianto idrico comune che conclamavano il rapporto di utilità funzionale tra i due immobili. Inoltre, non sarebbe stato accertato se al momento della vendita dell’appartamento fosse stata espressamente esclusa la mansarda.
Per la Cassazione, il ricorso è risultato infondato, in quanto fondato sull’errato presupposto che potesse ravvisarsi il vincolo di subordinazione tra la mansarda e l’appartamento. La costituzione del vincolo pertinenziale rende necessario non soltanto la materiale destinazione del bene accessorio ad una relazione di complementarietà con quello principale, ma anche l’effettiva volontà del titolare del diritto di proprietà, o di altro diritto reale di godimento, sui beni collegati, in quanto soltanto chi abbia la piena disponibilità giuridica di entrambi i beni può attuare la destinazione della “res” al servizio o all’ornamento del bene principale, occorrendo altrimenti un rapporto obbligatorio costituito tra i rispettivi proprietari.
Grava sul compratore del bene principale, che rivendichi la proprietà del bene secondario, l’onere di provare la sussistenza di un rapporto pertinenziale e quindi anche la destinazione a pertinenza attuata dall’unico proprietario del bene principale e di quello accessorio. I1 Tribunale aveva accertato che l’unico comune proprietario originario dell’appartamento e della mansarda avesse separatamente venduto quest’ultima con atto pubblico al signore che ne aveva disposto, per testamento, ad altri.
Per effetto di tale atto volontario di disposizione separato della mansarda, anteriore alla vendita della cosa principale, era quindi in ogni caso venuto meno ogni vincolo pertinenziale tra la mansarda stessa e l’appartamento acquistato. La Cassazione ha, perciò, rigettato il ricorso, condannando il ricorrente a rimborsare ai controricorrenti le spese sostenute nel giudizio di cassazione, liquidate in complessivi euro 3.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Fonte: Sole24Ore

La polizza non si paga se la cassa è vuota

ell’equilibrio delle competenze in ambito condominiale, spesso ci si domanda, relativamente ai rapporti tra amministratore e condominio, quale dei due è subordinato all’altro. Una questione che, seppur prevalentemente teorica, investe anche la realtà quotidiana, generando non raramente, problematiche che trovano soluzione per vie giudiziarie. Nell’ordinanza 24920 del 2017, la Cassazione ha esaminato un caso in cui il Tribunale di primo grado aveva accertato la responsabilità dell’ex amministratore di condominio per il tardivo pagamento di un premio di una polizza assicurativa. Lo stesso Tribunale rigettava la domanda risarcitoria, proposta dal Condominio nei confronti dell’ex amministratore, per i danni derivanti dalla mancanza di copertura assicurativa in relazione ad un incendio del tetto, condannando il convenuto a rimborsare, all’attore, la metà delle spese processuali.
Ricorrendo in Appello, la Corte accoglieva l’impugnazione incidentale dell’ex amministratore, dichiarandolo esente da responsabilità contrattuale, in quanto la mancanza di fondi nelle casse condominiali era stata determinata proprio dalla morosità dei condòmini. L’ex amministratore, inoltre, aveva inviato ai suddetti condòmini numerosi solleciti di pagamento. Motivo, questo, sufficiente ai fini dell’adempimento dei propri obblighi derivanti dal mandato, non essendo tenuto né ad anticipare le somme occorrenti per il pagamento della polizza assicurativa, né obbligato a ricorrere alla procedura monitoria per esigere i pagamenti delle quote.
Il Condominio motivava il proprio ricorso in Cassazione – al quale l’ex amministratore resisteva con controricorso – richiamando il principio della diligenza del mandatario che avrebbe imposto il ricorso alla procedura monitoria per il recupero dei contributi necessari alle spese condominiali.
Per gli ermellini, il ricorso è risultato infondato, in quanto l’amministratore ha, nei riguardi dei partecipanti al condominio, una rappresentanza volontaria. Ragione per cui, i suoi poteri sono quelli di un comune mandatario, conferitigli sia dal regolamento di condominio, sia dalla assemblea condominiale. La Corte d’appello aveva accertato che l’ex amministratore aveva più volte sollecitato, anche per iscritto, i condòmini morosi al versamento delle quote condominiali, avendo solo la facoltà e non l’obbligo di ricorrere all’emissione di un decreto ingiuntivo nei riguardi dei condòmini morosi. Per questa motivazione, non meritava censura la decisione impugnata laddove escludeva la violazione dell’obbligo di diligenza, in quanto l’ex amministratore si era attivato nella raccolta dei fondi ed aveva comunque messo in mora gli inadempienti.
La Cassazione ha, pertanto, respinto il ricorso ponendo le spese a carico della parte soccombente, liquidabili in euro 2.200,00 di cui euro 200,00 per esborsi, dichiarando, inoltre, la sussistenza dei presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Fonte: Sole24Ore

Strada condominiale con buche, la «manleva» sui danni va chiesta all’appaltatore

di Valeria Sibilio

Buche stradali: un problema divenuto ormai un’abitudine per tutti i cittadini, tanto che “L’Economist” lo ha definito “un flagello sia per gli stati ricchi che per quelli poveri”. Ed è anche un problema condominiale, come dimostra la sentenza della Cassazione 22851 del 2017. 
Un automobilista, proprietario di un veicolo danneggiatosi a causa della presenza di una buca non segnalata su una strada di proprietà condominiale, vedeva confermata dal Tribunale di Primo grado la decisione del Giudice di Pace con la quale veniva accolta la sua domanda di risarcimento danni nei confronti del condominio stesso. Il Tribunale rigettava, invece, la domanda di manleva, proposta dal condominio, nei confronti della società elettrica che aveva eseguito, attraverso una propria appaltatrice, sulla strada, lavori di scavo per allacciamenti ad utenze di energia elettrica, avendo ricevuto l’autorizzazione del condominio dopo essersi assunta l’impegno di evitare pregiudizi a terzi.
Il Giudice di appello rilevava che il nesso di causalità tra i danni materiali al veicolo e le modalità del sinistro risultavano accertate alla stregua delle risultanze istruttorie, mentre il condominio non aveva fornito prova che la buca presente sulla strada condominiale fosse stata realizzata a seguito dei lavori di scavo.
Il condominio, impugnando la sentenza di secondo grado, ricorreva in Cassazione, segnalando che il Giudice di appello avesse violato il giudicato interno il quale aveva accertato che la buca si era formata a seguito di dilavamento del terriccio di copertura dello scavo eseguito dalla ditta appaltatrice dei lavori commissionati dalla società di energia elettrica.
Giudicando il motivo di ricorso fondato, la Cassazione ha evidenziato che il Giudice di Pace aveva deciso per il rigetto della pretesa esercitata nei confronti della società di energia, in quanto tale società aveva rivestito la qualità di mera committente, quindi la domanda avrebbe dovuto essere svolta nei confronti della ditta appaltatrice che operava in autonomia e con propria organizzazione di mezzi, non risultando in contrario da alcuna allegazione l’ingerenza per lavori da parte della medesima società committente.
Il Collegio ha giudicato sulla base dell’accertamento dei fatti costitutivi della pretesa e, nella specie, l’esecuzione dei lavori di scavo da parte della ditta appaltatrice e la modalità del sinistro verificatosi a causa della buca determinata dal cattivo ripristino dello scavo. Questi fattori integrano accertamenti di fatto, compiuti dal primo Giudice, inerenti agli elementi costitutivi della pretesa fatta valere dal condominio nei confronti della società chiamata in causa, che precludevano al Giudice di appello di riesaminare detta questione.
Accertata, perciò, la violazione del giudicato interno formatosi sull’indicato fatto costitutivo della pretesa in cui è incorso il Tribunale, il ricorso ha trovato accoglimento, rinviando la sentenza impugnata al Tribunale in diversa composizione, allo scopo di provvedere al riesame del merito in ordine ai motivi dedotti dal condominio con l’atto di appello, rimanendo assorbito l’esame del secondo motivo di ricorso concernente la mancata valutazione da parte del Giudice di appello della “domanda di manleva” proposta dal condominio, in quanto coincidente con il compito riservato al Giudice del rinvio, chiamato a liquidare anche le spese del giudizio di legittimità.

Fonte: Sole24ore

Amministratore responsabile dei danni causati dall’impresa

di Giulio Benedetti

Il condominio vive di appalti con i quali fa assumere agli imprenditori , con l’organizzazione dei mezzi necessari e con la gestione a proprio rischio, il compimento di opere anche ad alto contenuto tecnologico. E l’amministratore è responsabile anche degli incidenti causati dall’impresa quando non si è preoccupato, con la dovuta diligenza, di verificare l’idoneità tecnico professionale delle imprese affidatarie , delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi in relazione alle funzioni o ai lavori da affidare (articolo 90, decreto legislativo 81/2008).

Il mancato percorso virtuoso è testimoniato dalla recente sentenza della Corte di cassazione 43500/2017 che ha affermato la responsabilità colposa di un amministratore e di un tecnico per incendio colposo del tetto e di una mansarda di un condominio.

In particolare all’amministratore era stato addebitato di avere conferito l’incarico senza verificare l’idoneità tecnico professionale dell’artigiano , incaricato delle opere di impermeabilizzazione del tetto, non avendo acquisito la documentazione relativa alla conformità alla normativa antinfortunistica delle attrezzatura usate e dei dispositivi di protezione in dotazione e neppure gli attestati inerenti la sua formazione ed il documento di regolarità contributiva. La Cassazione ha affermato la responsabilità penale dell’amministratore in quanto, avendo stipulato un contratto di affidamento di appalto da eseguirsi nell’interesse del condominio, è comunque tenuto, quale committente, all’osservanza degli obblighi di verifica della idoneità tecnico professionale dell’impresa appaltatrice , poiché è titolare di una posizione di garanzia , quanto alla conservazione e manutenzione delle parti comuni dell’edificio condominiale, ai sensi dell’articolo 1130 del Codice civile.

Infine la Corte sostiene che la responsabilità dell’amministratore sussiste anche se l’incendio si è inizialmente sviluppato su un bene di un singolo condomino, accessibile da una parte comune. Infatti l’amministratore era consapevole che i lavori da eseguire comportavano l’utilizzo di materiale infiammabile e pertanto avrebbe dovuto attivarsi a tutela delle parti comuni esposte a pericolo.

Fonte: Sole24Ore